"Qui non si parla di politica": il cartello era affisso in molti bar e locali pubblici, chi faceva intrapresa nel settore ristorazione all'alba del New Deal Mussoliniano potrà confermarvelo. Dall'altra parte dell'Atlantico un altro socialista, Roosevelt, tentava strade analoghe alle nostre per uscire dalla Grande Depressione: il parallelo terminerà con la Costituzione collettivista del '48; mentre l'Italia vira ancor più a sinistra, Eisenhower orchestra il rinascimento americano. Ma questa è un'altra storia. Quello che ci preme ricordare è il clima di profonda dedizione al lavoro che quel cartello simboleggia: un paese che ha il dovere morale di risollevarsi e diventare grande non può permettersi di arenarsi nelle secche dell'ideologia. Al riparo da quelle chiacchiere che avveleneranno l'Europa dagli anni sessanta in poi, una generazione è cresciuta senza porsi inutili domande, pensando a procurare il pane per sé e la propria famiglia. Non si parlava di politica, come non si bestemmiava né si sputava per terra – per citare altri celebri cartelli – nei confortevoli bar tra le due guerre. Proprio quel clima ci è balzato in mente seguendo in tv l'incontro di football Italia – Montenegro. Come ha puntualmente fatto notare il cronista, sugli spalti è apparso uno striscione che recitava "NO POLITICA". Tutti dovranno riconoscere che quella dei supporter azzurri è una bella lezione liberale, una cristallina dichiarazione di pragmatismo . Uno splendido segnale, chiaro e diretto, senza inutili e ambigui giri di parole o pretese intellettuali, i cui significati vanno anche oltre la semplice risposta a coloro che hanno strumentalizzato e demonizzato i tifosi che durante Bulgaria - Italia, nel bene o nel male, hanno tentato di difendere l'onore della Patria: la dimostrazione che le scorie del '68 sono alle spalle e possiamo, pur tra mille problemi, guardare al futuro come lo si faceva settant'anni fa. Negli stessi giorni il commissario tecnico della nazionale Marcello Lippi diceva un no chiaro e inequivocabile alle sirene del progressismo buonista. "Ho detto ieri a Moni Ovadia che avrei partecipato a un dvd didattico per le scuole contro il razzismo in genere, non contro il nazismo: lui invece ha riferito che avrei dovuto interpretare letture di Primo Levi sulla Shoah o qualcosa di simile. In quaranta anni di carriera non ho mai preso posizione politicamente e non intendo farlo ora, il video io lo intendo in chiave antirazzista e basta". Anche solo dieci o vent'anni fa un rifiuto del genere sarebbe stato impensabile. La stampa demogratiga avrebbe fatto pesare la propria (im)moral suasion e il malcapitato avrebbe dovuto inchinarsi al dogma ebraico-torinese. C'è voluto un bel coraggio da parte del principale artefice della vittoria ai Mondiali di Germania 2006 per tirarsi fuori dall'ennesima trappola ordita dai professionisti dell'indignazione organizzata. Sapeva dove si sarebbe andati a parare: le solite storie trite e ritrite, con il solito punto di vista; ma perché, viene da chiedersi, accanto alla versione di Primo Levi non è mai possibile affiancare quella di un Pietrangelo Buttafuoco o un Marcello Veneziani? L'ostracismo verso certe culture è ancora forte, è evidente. I pacifinti pretendono l'omologazione di campioni nazionali come Lippi per avere pedine da muovere nel gioco della lottizzazione selvaggia: intruppare un allenatore di tale rango avrebbe rappresentato un trofeo non da poco in occasione dell'ennesimo teatrino della memoria finanziato con danaro pubblico.
Meglio così. Dai tempi di Vittorio Pozzo (allenatore della nazionale di Beppe Meazza detto il Balilla, che vinse in casa nel '34 e in Francia, sotto i fischi degli antitaliani, quattro anni dopo) a quelli di Marcello Lippi la ricetta per vincere i mondiali resta uguale: tanto duro lavoro e pochi spettacoli. E allora sì che i risultati arrivano. PO POPO PO PO POOOOO!
[Originariamente pubblicato su Giornalettismo il 21-10-2008]
1 commento:
...questa è geniale...dovresti mettere il copyright!
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